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Speciale Heroes: Cupe Vampe e Atome Primitif @ Le Mura

dicembre 7, 2011

Quando assieme al mio prode compagno di concerti Mene, in sella alla mia fedele Toyota nera come la pece, raggiungo dopo trascendentali imprese alla ricerca di un parcheggio Le Mura, si son fatte quasi le undici. Signore, dimmi che il concerto non è cominciato. Dimmi che non è cominciato, dimmi che non è cominciato. Perché il venerdì sera devo staccare così tardi da lavoro?

Il concerto non era cominciato. Mi viene lasciato il tempo di fumare una sigaretta prima che i Cupe Vampe attacchino a suonare. Presentano il loro nuovo mini-ep Il Potere Del Digiuno, ed una piccola (forse troppo piccola) folla è lì ad assistere. Sulle prime note arpeggiate credevo di assistere ad un concerto dei Neurosis, ma improvvise digressioni noise alternate a confortanti dilatazioni post-rock mi hanno fatto desumere tutt’altro. Ma dopo questa introduzione strumentale i Cupe Vampe si sono dimostrati il gruppo rock che, memore degli ascolti precedenti, aspettavo di trovarmi di fronte. Un graffiato mugolio rock cupo e viscerale dal quale è difficile riemergere, un immediato momento di fusione tra musicista e strumento che desta gli animi assopiti e che, per qualche secondo, mi fa dimenticare il versamento di sangue sul mio dolorante ginocchio destro. Particolari meriti per la buona riuscita del concerto vanno al batterista, semplicemente da me definito con termini del calibro di “bestia” e “macchina”. Ha tenuto ritmiche mostruose, ha pestato come un dannato, e in alcuni momenti sembrava che tenesse da solo il concerto. Per citare il nuovo disco dei Verdena o un’esclamazione tipica di Paperino & co.: WOW!.

A seguire salgono sul palco gli Atome Primitif, giovane band nostrana in piedi dal 2007 che ha all’attivo un disco uscito lo scorso anno (Three Years, Three Days). Loro, a mio avviso, sono una cosa davvero grande, e davvero bella. Ammetto di non averli mai ascoltati su disco prima di incontrarli a Le Mura venerdì sera, eppure dopo il concerto sono stato totalmente soggiogato ed infatuato dalla loro potenzialità (inespressa, a causa di problemi tecnici: roba di volumi, roba per fonici). Perché non gli ha detto bene nulla a questi poveri ragazzi: prima il batterista non sentiva la chitarra, poi non sentiva il basso, poi la voce della cantante scompariva improvvisamente dalla sala, poi il volume delle basi al pc oscurava prepotentemente il resto della band. Purtroppo hanno suonato poco, una mezz’oretta, per poi dare forfait. Un peccato, perché la loro miscela trip-hop/post-rock, nei pochi momenti di chiarezza durante la performance, ha funzionato, eccome! In particolare sono stato colpito dal gusto per gli arrangiamenti, da alcune linee di basso dub che rimandano ai primi Massive Attack e, infine, dalla splendida voce alla Beth Gibbons di Azzurra. Forse è un po’ acerba, forse è ancora troppo fresca, forse deve imparare ancora a gestirla per bene. Forse è stata colpa solamente della serata no, e basta. Fatto sta che mi sono innamorato degli Atome Primitif, che nonostante tutto mi sono apparsi come una delle cose più belle ed interessanti accadute fino ad ora a Heroes. E provvederò immediatamente a rimediare il disco.

Poi, come per tutte le cose, arriva la fine. Ma tra due settimane si ricomincia, con i Mug. Sempre a san Lorenzo. Sempre a Le Mura. Sempre Heroes.

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Speciale Heroes: Le Naphta Narcisse @ Le Mura

novembre 30, 2011

L’ormai lontano 19 novembre ha avuto luogo a Le Mura di san Lorenzo un’altra serata di Heroes. Stavolta i padroni di casa sono Le Naphta Narcisse, gruppo nato nell’ormai lontanissimo 1995 a L’Aquila. È una bella serata, fredda quanto basta per farti congelare le dita dei piedi se porti le scarpe sbagliate, ma libera dalle nuvole. Si sente anche l’assenza del gelido vento invernale che ti pungola la faccia come se fosse il bersaglio di una partita a freccette. Però non fa caldo, e quindi per ristorarsi dal freddo quest’anno arrivato troppo tardi si comincia a bere. Birra, vino, whiskey, cocktail di varia natura: tutto fa brodo in questa serata novembrina.

Fortunatamente quando attaccano a suonare Le Naphta Narcisse il sottoscritto era fermo ancora ad un bicchiere di vino e a due pinte di birra; quanto basta insomma per godersi un concerto senza provare il caotico fastidio che l’ebbrezza suscita di fronte ad un amplificatore. Le N.N. strabiliano me e qualche astante con la strumentazione e, soprattutto, con le pedaliere. Sono stato cinque minuti buoni ad osservare quegli aggeggi infernali pieni di pedali, pulsanti, manovelle e lucine colorate. Non ho mai capito appieno il funzionamento di questi oggetti: non so come si chiamino i vari effetti e non comprendo proprio come una persona riesca a scegliere un effetto piuttosto che un altro. Ci sono tante cose che non capisco delle pedaliere, però so per certo che una pedaliera ben rifornita (e ben utilizzata) esalta appieno le potenzialità della chitarra che, man mano con gli anni, vanno sempre più scemando (ma davvero è stato già detto tutto?).

Bene. Stare qui a raccontarvi COSA suonino Le Naphta Narcisse e COME lo suonino sarebbe molto professionale ma, allo stesso tempo, davvero poco interessante. Vi basti sapere che fanno rock, che quello a cui abbiamo assistito è stato un gran bel concerto rock, e che sono dei musicisti preparatissimi e con grandissime idee che riescono a tenere egregiamente il palco. Insomma, cercano più o meno di sfiorare tutti quanti i lidi dell’alternative rock made in Italy (e non solo) condendo poi la miscela con testi pungenti e assai sarcastici, strafottenti e consapevoli. Schopenhauer dei tempi moderni: si scagliano contro tutto ciò che a loro non va e lo fanno senza mezzi termini, senza peli sulla lingua (espressione che odio profondamente ma che al contempo mi diverte tantissimo).

E così si passa la serata con piacevole leggerezza; e quando sul palco salgono altri musicisti per collaborare si capisce appieno lo spirito comunitario ed aggregativo di questa rassegna. Peccato che il palchetto de Le Mura sia piuttosto piccolo, altrimenti sarebbe stato carino salire tutti quanti sul palco e cantare, che ne so, We Are The World o quelle robe lì, con delle candele in mano. Magari vi ho dato una bella idea per la prossima serata. Insomma, Natale si avvicina. E siamo tutti più buoni. E siamo tutti più Heroes.

P.S.: un live report stilato così tardivamente deve delle spiegazioni. Purtroppo dopo il concerto ho sentito l’irrefrenabile desiderio di sperperare tutto il gruzzolo che avevo da parte in alcolici di varia natura, cancellando COMPLETAMENTE la serata dalla mia memoria. Solo per caso, qualche giorno fa, mi sono ricordato del concerto e del report da scrivere. Vabbè ma finché siamo giovani ‘ste cose se possono fa’.

Volemose bene.

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Editoriale #8 – speciale tossicodipendenza

novembre 6, 2011

Non sono sicuro che questo sia proprio l’ottavo editoriale. Potrebbe essere anche il nono. Nono. No no. Non è il nono bensì l’ottavo. La triste verità è che sto fatto come una pigna: il mondo è più bello, la vita è più bella, ogni volta per scrivere una parola ci metto tre eoni e boh, mi sento leggero. Molto leggero. Molto.

Sono talmente felice che il cielo grigio, anzi grigissimo, che tetro sormonta la mia Roma, al momento mi piace da morire. Sono proprio contento, il sole stavolta non la farà franca. Sono contento soprattutto perché questo cielo fa acquisire 1309920 punti mana a Spiderland degli Slint. Che diventa improvvisamente il disco migliore mai prodotto nella storia dell’intera umanità.

Sì; l’unica ragione per cui io amo questo cielo è Spiderland degli Slint. E vi pare poco?

Il disagio aumenta esponenzialmente, un futuro luminoso non sembra possibile, e la situazione attorno resta ferma, statica, impassibile a qualsiasi cambiamento possibile. Costruire una chiesa, la nuova chiesa, il nuovo modo di interpretare il mondo, diventa impresa primaria per poter uscire da questa atarassia. E gli Slint hanno messo tutto questo in un disco. In un disco che meglio di qualsiasi altro gruppo dell’epoca definibile generazionale (Nirvana e Pearl Jam per esempio) ha rappresentato il disagio alienato degli anni Novanta. Con i testi così spaventosamente evocativi, con le strutture della forma/canzone prima abbattute e poi ricreate geometricamente, con i suoni così “alti” ed “aperti”, così metallici e così distorti, Spiderland è riuscito a tramutare un’epoca in musica, una cosa astratta in una cosa quasi concreta. Copertina, musiche, testi, nulla c’è di sbagliato in questo disco, nulla che non sia perfettamente coerente con tutto il resto. Sì, io sto fatto, ed ora è partita Washer, ma io dico com’è possibile che un disco riesca ad essere così teso e così sospeso? Com’è possibile che questo disco non riesca né a toccare terra né a spiccare il volo? Com’è possibile che sia al di fuori di qualsiasi realtà immaginabile, e tuttavia nelle tematiche così spaventosamente reale? Io non lo so.

Io sto qui alla finestra a guardare il cielo. Sorrido. Non sono felice, sono fattissimo.

Stefano Rebibbia

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Speciale Heroes: Spiral69 @ Le Mura

ottobre 30, 2011

E siamo a due. Passano venti giorni, e ci si ritrova davanti a Le Mura di San Lorenzo. Ho la testa che mi scoppia, ore di lavoro sulle spalle e altre ore di lavoro davanti a me: si prospetta un sabato di quelli tragici, quei sabato che ti prendono a pugnalate sulla schiena, che ti riempiono di ganci ben assestati sullo stomaco e ti lasciano stramazzare a terra. Però oggi è venerdì sera, ho 21 anni, e sabato è domani. Domani affrontiamo domani, oggi non pensiamoci che è meglio. Che eroe sarei se mi lasciassi spaventare dal sonno che manca, dal digiuno forzato e da 10 ore di lavoro? Concentriamoci piuttosto sulla serata, che suonano gli Spiral69.

Gli Spiral69, tanto per intenderci, sono il progetto solista di Riccardo Sabetti dopo le esperienze con Argine e Pixel. L’ultimo disco è uscito quest’anno, si intitola No Paint On The Wall, ne ho scritto una recensione QUI e l’ho definito “una delle migliori release italiane di questo 2011”. E non c’è conflitto di interessi, all’epoca non ero neanche a conoscenza di Heroes, o magari sì, ne sapevo qualcosa, ma non immaginavo che ne avrebbero fatto parte anche gli Spiral69. Insomma, fidatevi, è davvero un bel disco. Leggete la recensione che ho linkato se vi interessa perché odio ri-scrivere qualcosa che, oltretutto, ho già pubblicato.

Non so se c’è più gente dell’altra volta, o se ce n’è di meno. A me sembriamo sempre tanti, e questo è l’importante. Dentro fa sempre caldo, forse più dell’altra volta. Sarà che mi sono messo sotto il ventilatore che non funziona, sarà che davanti c’è la tastierista che si sventola un po’ d’aria sul petto (per non dire sulle tette… ah l’ho detto), sarà il vino, ma fa caldo. Quando arriva il fatidico momento di attaccare a suonare, gli Spiral69 mi ricordano la bontà della loro proposta musicale e, soprattutto, di essere una delle band più in forma del momento qui in Italia (IMHO). La loro musica, che live oltretutto rende miliardi di volte più che su disco, è la combinazione centellinata e ponderata di un’infinità di elementi tipici della musica dark, nell’accezione più ampia che possiamo darne. E la cosa che più mi sembra funzionare nella band (oltre alla tastierista in qualità di essere vivente ndr) è il carattere dichiaratamente sensuale (o, per meglio dire, sessuale) dei brani. Insomma, l’apocalisse la lasciamo ad altri, la depressione non è cosa nostra e le città di lamiere e fuliggine non rappresentano la nostra realtà. Più Nine Inch Nails che altro insomma, nonostante la formula Spiral69 non sia affatto un copia/incolla ma un qualcosa di estremamente personale (a parte un brano inedito, se non mi sbaglio si intitola Dirt o Dirty, che mi è piaciuto molto ma che sa fin troppo di NIN). Insomma, gli Spiral69 hanno suonato un bel po’, hanno fatto salire sul palco Federico Amorosi e Alessandra Perna (che ha sostituito Tying Tiffany in The Girl Who Dance Alone In The Disco) ed hanno buttato nella mischia tre cover di alto livello (New Dawn Fades, There Is A Light That Never Goes Out e una canzone famosissima che porca puttana non ricordo né il titolo e né il nome della band, e la cosa ferisce profondamente il mio orgoglio di pseudo-critico musicale). Vorrei anche ricordare la presenza di Andrea Freda alla batteria, membro degli Spiritual Front, e già che ci sono vorrei mandare un saluto a Stefano Conigliaro, batterista che ha registrato No Paint On The Wall, il quale ho avuto modo di conoscere (molto poco a dire il vero) durante un concerto dei Granada Circus, e vorrei anche dare adito alle voci che lo ritrarrebbero come ragazzo tranquillo e assolutamente pacifico. Certo, non siamo amici, in realtà neanche mi ricordo benissimo la sua faccia, ma conosco davvero molto bene alcune persone che lui frequenta e, per quel che può valere, mi è sempre stato descritto come una persona innamorata della propria ragazza e del proprio strumento, e che con la violenza non ha davvero nulla a che fare. Ora rischia dai 3 ai 15 anni di carcere per resistenza aggravata a pubblico ufficiale per i fatti del 15 ottobre scorso (vi ricordate Roma messa a ferro e fuoco dai black blocks?), ma pare ci sia un video che confermi in realtà tutto l’opposto, e cioè che Stefano sia stato accondiscendente con i poliziotti che lo avevano fermato (che gentilmente come premio gli hanno poi regalato una manganellata). Io spero sinceramente che la verità salga a galla il prima possibile, spero che Stefano possa riprendere subito a suonare la sua batteria, e spero che possa tornare ad abbracciare la sua ragazza, i suoi amici e i suoi familiari. E magari incontrarlo una sera a San Lorenzo, magari a Le Mura, magari di venerdì. Perché gli eroi sono con te, e tu sei uno di noi.

Ci vediamo il quattro novembre, che suonano gli Operaja Criminale. Avete da fare? Esticazzi!

P.S.: ho dovuto mettere una foto di Licia Missori (la tastierista) da sola perché wordpress mi ha tagliato l’immagine a caso. E ve lo dico chiaramente, non mi andava di cercarne un’altra.

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La Quiete + Raein + Gerda + godog + Heisenberg @ Traffic

ottobre 17, 2011

“Mi viene da pensare, a volte, che i powerchords degli Hüsker Dü abbiano lasciato un’impronta nel mondo della musica maggiore, se possibile, rispetto a quella lasciata da band con un “bacino d’utenza” immensamente più ampio. Rispetto ad una band come i Beatles, per esempio, i quali sarebbe d’uopo precisare non hanno inventato la ruota, come in molti vorrebbero farci credere.”

È festa grande al Traffic. Cinque band divideranno il palco del locale: godogHeisenbergGerdaRaein e La Quiete. Il pubblico non affolla il locale, non siamo insomma davanti al sold out che invece mi aspettavo di trovare, e tra una birra ed una canna la serata scorre via piacevolmente. Mi perdo gli Heisenberg poiché arrivo con imperdonabile ritardo (avete presenti quelle cene di compleanno a cui non si può mancare?), mentre igodog riesco a non perdermeli per un pelino. Personalmente non mi hanno fatto gridare al miracolo, per quel poco che ho potuto sentire, ma certo sarebbe difficile giudicare negativamente la loro prova. Il loro punk rock classico, divertente, dalle forti tinte rosa vista la composizione della band, ben si addiceva allo spirito della serata. Serata che presto i Gerda avrebbero sconvolto, almeno al sottoscritto.

Avete in mente quelle volte in cui state davanti al palco, immobili, con gli occhi sbarrati e la bocca mezza aperta, a ciondolare la testa mentre il piede batte il tempo in sedicesimi (addirittura)? Questo è stato l’effetto dei Gerda: una sorta di ascesi mistica dalla vita, con il loro post-hardcore dal non troppo vago sapore stoner viste le continue dilatazioni e reiterazioni all’interno dei brani. Li avevo ascoltati su disco e mi erano piaciuti abbastanza, soprattutto l’ultimo ‘Gerda’ che mi ha piacevolmente sorpreso, ma il loro impatto live è un qualcosa di divino. Io mi sono girato almeno cinque o sei volte verso un mio amico dicendogli “oh cazzo, questi sono il mio gruppo preferito”. E poi si muovevano come pazzi sul palco; il bassista maltrattava il suo strumento sbatacchiandolo da una parte all’altra del palco, mentre il cantante perdeva le corde vocali e giocava con gli effetti del microfono. Una psichedelia-punk originale, coinvolgente, figlia di una band che già non vedo l’ora torni a suonare a Roma.

Dopo i Gerda è il turno dei Raein, forti del successo del loro nuovo, bellissimo disco ‘Sulla linea dell’orizzonte tra questa mia vita e quella di tutti’. Band ispiratrice, per quanto riguarda nome e sound, degli ormai famosissimi Fine Before You Came (che hanno contribuito eccome alla riscoperta dei Raein), propongono il loro screamo dalle atmosfere post-qualsiasi cosa: un sound che è stato innovativo e che continua ad evolversi e a restare originale, inconfondibile marchio di fabbrica del sestetto di Forlì. A proposito di sestetto, è veramente bello vedere un concerto rock (perché se vogliamo generalizzare, di rock si parla quando c’è una chitarra elettrica) con sei membri sul palco. L’impatto della band è forte a livello visivo, ma soprattutto è forte il noise che tutti quegli amplificatori messi insieme riescono a produrre. Sarebbe una bella performance, se non fosse per la freddezza del pubblico (giustificata in parte dal fatto che i Raein impiegano cinque minuti ogni volta per passare da una canzone all’altra, viste le quindicimila diverse accordature che sono soliti utilizzare). Tra vecchie glorie e nuove gemme, lo show conferma il valore della band, anche se forse su disco rendono meglio che dal vivo.

E poi arrivano i La Quiete. Diciamo pure che il 90% dei presenti era al Traffic apposta per loro. Se i Gerda dimostrano di avere un ottimo impatto live, e se i Raein al contrario fanno rimpiangere il disco a tutto volume nello stereo della macchina, i La Quiete confermano l’assoluta padronanza che hanno sulla loro musica, sia dal vivo, sia su disco. Non si possono categorizzare, non si può dire “sono bravi” o “hanno fatto davvero un bel concerto”. I La Quiete sono un’entità a parte, una figura magnifica della musica nostrana che trascende i giudizi e le critiche, comunicando non solo attraverso le sette note ma, soprattutto, attraverso l’empatia che si viene a creare col pubblico. Tutti sotto il palco, tutti ad urlare ogni singola parola, tutti a dimenarsi e a scatenare la primordiale danza che il punk riesce ancora a far ballare nei locali di tutto il mondo (l’esperienza mi insegna che, mentre durante i concerti metal il pogo altro non è se non un farsi male/far male che scatena tanta gioia e tanta euforia, durante i concerti punk questo significa comunicazione, comunicazione mediante il movimento, cioè quanto di più innato e animale v’è in noi). I La Quiete trasformano il Traffic in una discoteca primordiale: il sudore finisce dritto in bocca e si mescola alla saliva, e se non si conoscono i testi delle canzoni (brani nuovissimi presentati la sera stessa), allora si urla e ci si agita ancora di più. Poi, come tutte le cose belle, il concerto finisce. Ma la fine non è la fine: farò pure la figura del fanboy più idiota di Roma, ma in macchina, una volta riaccompagnati i miei amici a casa, debbo per forza urlare a squarciagola i versi di ‘Metempsicosi del fine ultimo’.

Stefano Ribeca

http://www.nerdsattack.net/?p=29280

 

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Editoriale #7: speciale donne

ottobre 11, 2011

E a questo editoriale ci tengo particolarmente, perché il 7 è il mio numero preferito.

So che questo blog tratta quasi esclusivamente la musica nostrana, e so che ci sono ancora tantissime cose da dire entro i nostri confini nazionali che ancora non sono state accennate. In particolare su questo sito ancora non s’è parlato del nuovo disco dei Morkobot (uscirà tra una decina di giorni), o della stupenda ultima uscita dei Raien (il loro miglior disco); senza contare tanti altri come Butcher Mind Collapse, Mombu, C+C=Maxigross, Mary in June (ho scritto di un loro live QUI ma non ho mai affrontato la recensione del loro ottimo Ep Ferirsi) e tanti altri. Senza poi considerare quegli artisti più “famosi”, che il sottosuolo ormai non sanno neanche cosa sia, come Verdena, Paolo Benvegnù e Vinicio Capossela (lo odio profondamente). Ma oggi no, oggi voglio parlare di donne, e mi dispiace tanto ma lo zampino fuori dallo stivale debbo cacciarlo per forza.

Una delle prime uscite del 2011 è sembrata essere, a detta di molti e col senno di poi, la migliore release dell’anno. Let England Shake segna ineluttabilmente il ritorno in pompa magna e, soprattutto, la crescita artistica di Pj Harvey. Un tempo era una ragazza di provincia, amante delle sigarette e della voce rovinata di Captain Beefheart, Tom Waits, Nick Cave etc. Il suo suond era essenziale, ruvido e sporco, e allo stesso modo la sua voce. Adesso, dopo essere passata per prove che non hanno accontentato proprio tutti (Uh Huh Her, White Chalk), con Let England Shake dimostra a tutti che la strada intrapresa è quella giusta. La sua voce è cambiata da un po’ di tempo ormai, e spesso sembra un gioco tra le mani di un bambino (a parte in pezzi come England, in cui si riconosce forte “la grana” della voce). I temi sono cambiati, dalle invettive sessiste della giovane Pj si è passati ad un concept album complesso, e per nulla banale, sulla guerra. E va detto che più passa il tempo più mi viene da accostarla a Patti Smith, ma guai a dirlo a lei sennò mi uccide.

Mi sono voluto soffermare sulla brava Pj, ma Let England Shake non è l’unico disco che ha permesso quest’anno alle quote rosa di spadroneggiare. C’è infatti un altro album uscito ad inizio anno (17/21 gennaio), l’omonimo di Anna Calvi, che è prepotentemente entrato nei cuori di migliaia tra giornalisti, bloggers, giovani e meno giovani di tutto il mondo. Definita come la figlia (artisticamente parlando) dell’unione tra Jeff Buckley e Pj Harvey, Anna è riuscita a dare nuova verve al così definito alternative songwriting, lanciando con impeto la moda dell’originalità e dell’eccentricità. Per un attimo questo disco ha rischiato di diventare un’icona del 2011, un disco seminale. Non ce l’ha fatta, forse per colpa del periodo storico. Io non lo so, non mi sono particolarmente soffermato a studiare il disco e il contesto in cui è uscito, fatto sta che un po’ mi dispiace. Perché probabilmente è l’uscita più affascinante che questo 2011 ci abbia concesso. Probabilmente.

E non voglio dilungarmi, perché già mi sono stancato di scrivere, ma la pienezza e la corposità di Metals, disco della bellissima/bravissima Feist uscito or ora (il 4 ottobre), la freschezza dal sapore comunque vintage di Strange Mercy, terzo disco di Annie Clark (a.k.a. St Vincent), la tenacia di Laura Marling che pubblica tra il 2008 e il 2011 tre album tutti di valore, e poi il secondo album delle Dum Dum Girls che mi avevano particolarmente sorpreso con una cover di There Is A Light That Never Goes Out (eccola) uscita nell’Ep He Gets Me High seguito subito dopo dall’album Only In Dreams (e ho anche avuto modo di intervistarle per Loudvision), e poi ancora Sara Lov, Chelsea Wolfe, Regina Spektor (bello il singolo Four From Far), Zola Jesus, Florence and The Machine, Lykke Li e tante, tante, tante altre; queste sono tutte le donne che hanno permesso al gentil sesso di spadroneggiare in questo interessante 2011.

Per non parlare poi della bellissima asimmetria (che forse noto solamente io) del volto di Lana Del Rey, vera e propria rivelazione pop uscita lo scorso anno con un disco ma che sta imperversando sul web grazie al bellissimo singolo Video Games e al suo lato B Blue Jeans (QUI potete vedere Video Games, ne vale la pena). Aggiungeteci poi la morte, che iddio l’abbia in gloria, di una delle più grandi icone del pop recente come Amy Winehouse, e vi ritroverete davanti ad un anno esclusivamente al femminile. Ma io sono contento. Non vedo più il futuro così nero. Piuttosto direi rosato, frizzantino.

Stefana

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Heroes Opening Party: Luminal + Betty Poison

ottobre 9, 2011

Scrivere con la febbre: è la prima volta che provo una cosa del genere. E non è bello.

Venerdì sette ottobre comincia ufficialmente l’autunno. Fa freddo, soprattutto la sera, e si rispolverano le giacche ormai quasi dimenticate. La fine delle serate romane a maniche corte coincide però con l’inizio della rassegna Heroes: Roma come New York, a Le Mura di san Lorenzo (se non sapete di cosa si tratti potete controllare QUI, certo ciò non toglie che siate delle persone davvero poco informate). Già un’ora prima del concerto, verso le dieci, c’è una piccola folla (destinata inesorabilmente a crescere) pronta ad assistere all’opening party, inaugurato da Betty Poison e Luminal.

Alle undici circa cominciano i Betty Poison, con il loro rock sporco e graffiato di matrice seattleiana. Nonostante abbiano già calcato parecchi palchi in giro per il mondo (hanno suonato in giro per l’Europa e anche negli States, tanto per chiarire) riescono a entusiasmarsi, ma soprattutto ad entusiasmarci, anche qui a Roma, a Le Mura. Sarà che se fai musica concedi te stesso al cento per cento in qualsiasi occasione, ma c’è da scommettere che il progetto Heroes per come è impostato e per la lungimiranza con cui è nato riuscirebbe ad elettrizzare anche la più pigra delle menti. Il loro noise grungettone dalle improvvise (ma davvero sporadiche) digressioni hardcore convince e riesce a strappare almeno un headbangin’ anche ai più sonnolenti, e in una città come Roma questo faticano ad ottenerlo anche band all’apice della loro carriera. Cattivi, sporchi, sensuali (merito di Lucia, naturalmente), tengono il palco da Dio grazie anche ad un atteggiamento machista per nulla forzato, ma anzi spontaneo, naturale, e sembra strano parlare di machismo quando di mezzo c’è una frontwoman. Una band che lascia il segno insomma, e che nella versione live rende, se possibile, molto più che su disco. Ed è così che deve essere.

Il tempo di una rapida partita a biliardino e tocca ai Luminal, la vera mente dietro la rassegna Heroes. Reduci dalla fortunata campagna in terra teutonica (ma sì, dai, il Belgio è sempre Germania), i Luminal presentano la loro nuova line-up di tre elementi, visto l’allontanamento dalla band della precedente bassista. Alessandra, Carlo e il “bonissimo” Commi (così definito da una sua meravigliosa fan) sono diventati un altro gruppo rispetto a quello che ha registrato l’ultimo album Io Non Credo. Se infatti ascoltaste il disco confrontandolo poi col live dell’altra sera vi rendereste conto del perché. Le canzoni guadagnano una forza d’impatto incredibile, grazie alle ritmiche serrate (perfetto tappeto per i semi-spoken words di Alessandra) e all’accentuato carattere noise della chitarra di Carlo. I Luminal adesso fanno casino, fanno agitare, fanno ballare (come ha dimostrato anche la cover di Damaged Goods dei Gang Of Four*); sono il dualismo tra la voce forte ed impostata di Alessandra e quella più leggera e scazzata di Carlo; sono musica, parole e sangue. Eppure, inconvenienti tecnici a parte, non sono riusciti a rendere al meglio. Inutile dare la colpa a qualcuno, perché la risposta è che la band sta attraversando un processo evolutivo che non ha ancora assimilato al cento per cento, ma che fa ben sperare per il futuro. Aspetto con ansia il prossimo disco, con delle canzoni non “riadattate” alla nuova formula, perché personalmente preferisco i nuovi Luminal rispetto ai precedenti.

Finito il concerto esco fuori dal locale per prendere un po’ d’aria. Fa freddo, chiudo i bottoni della camicia e indosso la giacca. Attorno a me vedo tante persone: tutte sorridenti, tutte soddisfatte. Non so se hanno coscienza del fatto che le sorti di Heroes stanno nelle nostre mani. I Luminal, i Betty Poison, e tutte le band che ritroveremo nei prossimi venerdì sempre a Le Mura, non sono eroi dettati dalla predestinazione. Siamo noi, con la nostra presenza ed il nostro entusiasmo, con la nostra voglia di musica e il nostro supporto, siamo noi che potremo renderli, un giorno, eroi.

Io venerdì 28 ci sarò, a vedere gli Spiral69. Solito posto, solita ora.

Voi?

*A proposito di Damaged Goods. Quello è stato un momento piuttosto imbarazzante per il sottoscritto. Mi sono infatti reso conto di essere stato l’unico ad aver cantato TUTTA la canzone dei Gang Of Four e, al contempo, l’unico a non aver cantato neanche una canzone nè dei Luminal nè dei Betty Poison. Sono una persona cattiva? Forse sì.

P.S.: quando ho scritto che sono uscito fuori per prendere un po’ d’aria, non ho precisato che di aria ne ho presa troppa. Infatti sto scrivendo con un piacevole 38 di febbre. Eroico.

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Playlist #3

ottobre 7, 2011

La terza playlist m’è venuta in mente sfogliando QUESTO blog che, in soldoni, permette di ascoltare le canzoni citate da Simon Reynolds nel suo libro Rip It Up And Start Again, meglio conosciuto qui in Italia con il titolo (molto meno catchy) Post-Punk 1978-1984. E’ un librone, poco da dire. Quell’uomo viene definito, a ragione, il più grande critico musicale vivente. Ogni sua opera letteraria è una vera e propria enciclopedia del sapere contemporaneo che fonde storia, filosofia, sociologia, psicologia, politica, e naturalmente musica. La playlist conta le canzoni tratte dai dischi che ho scoperto, un po’ d’anni fa, grazie a questo libro.  Canzoni che mi hanno segnato profondamente. Ma giustamente a voi cosa cazzo ve ne può fregare? Non ha neanche senso che le pubblichi queste playlist. Sono una forma di autocompiacimento e basta. Autocompiacimento cosa? Niente, questa è l’ultima playlist. Però poi non metti il link su twitter così non la pubblicizzi ed è ochei, sei d’accordo con te stesso. No seriamente non ti seguo. Il discorso è che tu, se pubblichi questa playlist senza pubblicizzarla, non farai altro che pubblicarla per te stesso. Sì, ma potrei evitare di farlo. Vero, ma hai scritto troppo fino ad ora, ti pare che non la pubblichi? Dici che sono un vanesio? Ah, puoi dirlo forte: un vanesio insicuro. Bello. Dai pubblica ‘sta playlist e vatti a vedere Studio Sport che magari parlano della Roma.

  1. Public Image Ltd – Annalisa
  2. Magazine – Shot By Both Sides
  3. Subway Sect – Parallel Lines
  4. Pere Ubu – 30 Seconds Over Tokyo
  5. Devo – Mongoloid
  6. James Chance and the Contortions – I Can’t Stand Myself
  7. The Pop Group – We Are Time
  8. Gang Of Four – At Home He’s Like A Tourist
  9. Talking Heads – I Zimbra
  10. Wire – Mercy
  11. The Fall – Repetition
  12. Cabaret Voltaire – Henderson Reversed Piece Two
  13. Human League – Being Boiled
  14. Scritti Politti – Skank Bloc Bologna
  15. Young Marble Giants – Final Day

Poi c’è tutta la seconda parte del libro che però non ho letto perché, a un certo punto, ho cominciato a leggere Dostoevskij. Chi me l’ha fatto fare? Meno male che ho smesso, così posso riprendere Rip It Up.

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Editoriale # 6: speciale Heroes

settembre 29, 2011

Scusatemi se mi prendo troppo sul serio

Il fatto che una cultura, o se preferiamo una sottocultura, prenda le mosse da una ed una sola città (o da una zona geograficamente circoscritta) per poi espandersi a macchia d’olio è cosa nota a tutti. Basti pensare alla Manchester della rave generation (la famosa Madchester di gruppi come gli Happy Mondays) o alla Seattle grunge, terra dei Nirvana e di tutti i loro eredi. Il fermento punk nella Londra fine anni Settanta, la dissacrante scena no wave newyorkese post-Ramones (risale al ’78 la bellissima No New York, compilation fortemente voluta e prodotta da Brian Eno che ha “scoperto” fenomeni come Lydia Lunch e James Chance). E questa non è una prerogativa di Stati Uniti e Inghilterra. Impossibile dimenticare il fermento culturale della kosmische musik tedesca, in fuga dalla terribile realtà della guerra fredda e di una Germania divisa, o le nebbiose lande d’Avignone che hanno riscritto l’accezione depressive fondendo tra loro l’eterea alienazione shoegaze e le cupe ambientazioni black metal. Poi c’è il nord Italia, la pianura Padana specialmente che, in questi ultimi anni, ha saputo abbracciare orde di entusiasti ragazzi sotto il comune denominatore della tristezza e dell’adolescenza mai svanita. La nuova scena screamo, o emocore, o post-hardcore che dir si voglia, viene proprio da lì. Gruppi che ormai non condividono solo il palco tra loro, ma anche gli studi di registrazione, le campagne pubblicitarie, le birre nei locali. È nato un gruppo di persone, di amici, che è riuscito a gridare più forte di tutti e che si è imposto nel panorama underground italiano senza la pretesa di raggiungere un particolare scopo, ma con il semplice intento di esprimersi. Un successo inevitabile vista la freschezza e, soprattutto, la quotidianità dei loro vocabolari e delle loro figurazioni liriche. Ma non è in questa sede che voglio soffermarmi su questa bella realtà nostrana.

Roma, la capitale, il punto in Italia dove senza ombra di dubbio più vivace è lo scambio, lo scontro, la fusione tra un numero indefinibile di culture. Una città sì caotica e disorganizzata, ma pregna di materiale umano, di esperienze e di opportunità. Molte più rispetto ad altre grandi città d’Italia, che però hanno saputo meglio gestire e ravvivare le associazioni, i circoli, le organizzazioni culturali locali. In piccola parte grazie alle istituzioni, in grande parte grazie alle persone che credono nell’arte, che credono nell’utilità della diffusione della cultura, che credono nella forza del dialogo e del confronto. Queste sono persone che hanno voglia di FARE. Non voglio cercare alibi per la città eterna: non diamo la colpa alle istituzioni che non creano spazi associativi, che non finanziano la cultura, che non riescono a perorare una politica giovanile adeguata (nonostante questi problemi ci siano e vadano risolti). La colpa, se davvero di colpa si vuol parlare, è nostra e di nessun altro. Perché non abbiamo la cultura del fare, al contrario di qualcun altro (se ci autodefiniamo la società dei magnaccioni un motivo ci sarà); perché ogni volta che pensiamo all’arte e alla cultura nella nostra città volgiamo la mente ar colosseo e ai fori imperiali, legandoci in maniera così stretta quanto stupida ai fasti di un passato che ormai è lontano anni luce da noi (lontano in tutti i sensi), mentre da altre parti d’Italia (ma che dico, in tutto il mondo) si pensa giustamente al presente, ma soprattutto al futuro. Un futuro a cui noi romani non sembriamo poi tanto interessati, visto che finché non crolla il colosseo, nun c’è problema.

E così ben vengano i nostri eroi, pronti a dare una svegliata al piattume artistico in cui la gioventù romana sembra essersi impantanata. Pronti, in piccola parte, a darci una valida alternativa ad occhialute orde di hipster meta-nerd che affollano le serate del Circolo, in cui l’amore e il culto della propria persona (e del giusto style) vanno annullando il carattere aggregativo di una delle poche occasioni d’incontro di massa nella capitale. Stavolta non si seguiranno le mode, non si cercheranno i consensi: stavolta si sta tutti insieme, sulla stessa barca, e ci si promuove l’un l’altro. Stavolta si sta insieme per stare insieme, per promuoversi e per promuovere, per divertirsi e per far vedere che una scena romana è possibile. Perché Heroes è un progetto concepito e sviluppato dalle band, un progetto che parte dal basso e che coinvolge persone normali, ragazzi della città che hanno in comune la passione per la musica e la voglia di risvegliare la città da questo stato di perpetua sonnolenza che ci ottenebra da troppo tempo. Da qui il motto “pijamose Roma”.

Tutto questo va a braccetto con la speranza di poter un giorno uscire dai confini cittadini, poi nazionali, cercando di diventare una realtà non solo conosciuta in patria, ma anche apprezzata all’estero. Per questo “Roma come New York”: non solo la Grande Mela può essere un modello di fervore culturale, ma può anche diventare l’ambita meta da raggiungere, o il canale privilegiato di uno scambio artistico tra noi e il nuovo mondo.

È arrivato il momento di supportare queste iniziative dal basso. È arrivato il momento di non prenderci troppo sul serio, ma di non prenderci neanche troppo sotto gamba. Perché questo è il modo giusto e sano di considerare la musica, e soprattutto è il modo giusto e sano di considerare la città che, seppur piena di difetti e contraddizioni, amiamo dal profondo del nostro cuore. Roma.

Se volete leggere il manifesto di Heroes, dare un’occhiata alle band che vi fanno parte e al calendario stilato, potete andare QUI.

Stefano

h1

Nappone: Cina In Lattina

settembre 22, 2011

Nappone

Cina In Lattina

punk rock

In parole povere: fresco e divertente, davvero niente male.

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Nappone & HMF è un quartetto punk-rock napoletano, facente parte del fantomatico quanto brillante “comitato lavico”, una sorta di comunità virtuale d’artisti napoletaniche si sforzano di non diffondere il proprio verbo in dialetto, ma coraggiosamente nella lingua del bel paese là dove ‘l sì suona.Questo loro EP Cina In Lattina risulta chiaramente una sorta di sfogo artistico che non segue alcuna particolare linea direttrice. Piuttosto è chiarissima la libertà di composizione dei quattro musicisti che, probabilmente il paragone sembrerà azzardato, ricordano per sonorità i Magazine di Real Life. Un punk-rock fresco, immediato, genuino, quasi glamour per via della splendida interpretazione vocale di Mr. Nappone.

Ma che gioia! Che gioia ascoltare dei ragazzi napoletani che non cantano in dialetto, e che riescono ad utilizzare un perfetto italiano senza neanche far notare l’accento! Scelta vincente quella del “comitato lavico”, perché fa sì che i gruppi si caratterizzino non per la loro provenienza geografica ma per le loro reali qualità artistiche. E i Nappone di qualità ne hanno da vendere, senza disdegnare una massiccia dose di ironia che pervade tutti i testi e che rende ancor più scorrevole e piacevole Cina In Lattina. Aspettiamo con ansia il disco.

Articolo pubblicato su LoudVision: http://www.loudvision.it/musica-dischi-nappone-cina-in-lattina–5434.html